Tradizioni e Culture
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Ancona

I SERVIZI TECNICO-NAUTICI

Il porto dei luoghi, delle persone, dei lavori; il porto dei monumenti e dei rituali, dei volti, delle storie e delle tradizioni; il porto delle identità, delle lingue, delle prospettive e delle memorie di luogo. E’ una lettura d’autore quella che Gian Luca Favetto ( Torino, 1957) –  poeta, giornalista, scrittore, drammaturgo italiano – ha costruito per il porto dorico su committenza dell’Autorità di sistema portuale del mare adriatico centrale. Gian Luca Favetto scrive sul quotidiano la Repubblica, ed è una voce storica di Radio Rai. Ha ideato il progetto Interferenze fra la città e gli uomini. Tra i suoi lavori più celebrati: Se dico radici dico storie, le poesie Mappamondi e corsari, l’audiolibro I nomi fanno il mondo, il romanzo La vita non fa rumore, il racconto Un’estrema solitudine.

Testo: Cristiana Colli

 

ANTONIO PIGNATARO, 18 OTTOBRE 1961

Ormeggiatore

di Gian Luca Favetto

Ultra Undam è il nostro motto, oltre l’onda. Oltre a prendere la cima e assicurarla alla bitta, l’elemento principale del nostro lavoro è garantire la sicurezza nel momento in cui le navi entrano in porto.

Io vengo dal Salento. Adesso, con la globalizzazione, magari non c’è più tanta differenza fra Lecce e Milano, ma negli anni Sessanta sì che si vedeva, e si pativa. Avevo voglia di andare, di crescere; rimanere al paese voleva dire restare indietro. C’era ancora il latifondo da noi. Il mio futuro sarebbe stato il passato di mio padre: lavorare la terra per altri. L’unica alternativa per liberarmi di questo passato era emigrare: o studiavi per trovare un lavoro nelle industrie del Nord o ti arruolavi militare, a metà anni Settanta la vedevo così.

Per me il mare era l’estate, con mio nonno che faceva il pescatore. Mi dava una sensazione di libertà e di serenità, potevo fantasticare, fare progetti. Oltre al vento, il mare è l’unica forza che non puoi governare, bisogna portargli rispetto, questo ho imparato.

A sedici anni, mi ha conquistato la pubblicità della Marina. L’ho trovata su un giornalino, l’Intrepido. Diceva: “Arruolati in Marina e girerai il mondo”. Ho fatto domanda e dopo due anni di corso alla Maddalena per lavorare nella Capitaneria di Porto mi hanno mandato ad Ancona. Qui ho compiuto diciott’anni e ho cominciato ad alternare imbarchi e attività in porto.

Nel 1987 mi sposo, nascono tre figli e mi vedo la scena: io assente, che navigo, e i figli che crescono… La stessa cosa di mio padre emigrato in Svizzera, sempre lontano. Allora il comandante del porto mi suggerisce di tentare il concorso per ormeggiatore. Lo faccio nel giugno del 1999, ed eccomi qua. Orgoglioso e felice. Guarda la nostra Torre ormeggiatori-piloti, non ti sembra la tolda di una nave piazzata a terra?

Noi viviamo il mare dal porto e il nostro lavoro è una continua novità. Non è statico come in città, dove quel palazzo, quel monumento sono sempre lì. È un continuo andare e venire di navi, merci, uomini. Tutte le operazioni, anche quelle ripetitive, sono uniche. Vivi in un mondo più immaginario, leggero, pieno di emozioni.

Nel caso di Ancona, tuttavia, devo dire che la situazione è surreale. Non c’è mai stato un vero connubio fra porto e città. La città, come capoluogo di regione, è cresciuta con il terziario; mentre il porto, per scambio merci e per passeggeri, volava verso la dimensione internazionale. È che Ancona non ha mai avuto un ceto marittimo come Genova, Napoli, Bari, c’erano solo pescherecci, è mancato a lungo un interscambio culturale e professionale di arti e mestieri. Soltanto da un decennio Ancona si sta riavvicinando al mondo portuale: spedizionieri, agenti marittimi, doganieri, gruisti, pescatori, camionisti, ferrovieri sono stati a lungo un paese a parte accanto alla città. Meno male che la tendenza è cambiata. Fortunati i ragazzi di oggi che possono godere del nuovo contatto fra città e area portuale. È la condizione perché sbocci il futuro di Ancona.

 

AUGUSTO SELVA, 10 gennaio 1963

Capo pilota del porto

di Gian Luca Favetto

I piloti del porto sono dei consiglieri, degli ausiliari, dei suggeritori per i comandanti delle navi che arrivano e partono. Suggeriscono le rotte d’ingresso, perché conoscono bene la morfologia, i fondali, le correnti e i venti. Al tempo stesso, i piloti sono la longa manus della Capitaneria di porto: essendo i primi a salire, quando una nave entra, sono i primi che vengono a conoscenza di quello che succede a bordo… cose come avarie, disfunzioni tecniche… Siamo i primi a prendere le misure necessarie e a riferire alla Capitaneria, che rimane la custode della sicurezza del porto.

Io faccio questo. C’entra un po’ con la tradizione di famiglia. Mio nonno Augusto era un navigante, un caporale di macchina. Ha passato la vita sulle navi mercantili. Durante la guerra, il mercantile su cui era imbarcato è stato affondato davanti alle coste dell’Africa Orientale. Mentre mio padre Carlo lavorava come fonditore ai Cantieri Riuniti Alto Adriatico.

Siamo di Trieste. Siamo di Rena Vecia, la parte vecchia di Trieste. E a un certo punto siamo andati ad abitare di fronte al porto. Intanto, due giorni dopo che sono nato io, muore mia madre. Allora mi affidano agli zii, che mi accolgono come un figlio: mia zia la chiamavo mamma, mentre mio padre lo vedevo saltuariamente la domenica. Mi volevano molto bene, ma eravamo proprio poveri. Se ho un ricordo di quel periodo, è che avevo sempre fame.

Poi mio padre nel 1970 si risposa. Io allora avevo sette anni e ho iniziato un via vai tribolato fra due famiglie. Un giorno, un condomino del terzo piano mi regala “Cuore” di De Amicis. È il primo libro che leggo, all’età di otto anni. Ogni pomeriggio passavo da lui. Mi ha insegnato a collezionare i francobolli. Adesso uno non ci pensa più, ma i francobolli stimolavano la curiosità, spingevano ad approfondire gli argomenti, la conoscenza dei luoghi, gli avvenimenti storici. Così mi iscrivo in biblioteca e comincio a leggere libri di avventura: Emilio Salgari e Jules Verne. Tutto questo, più la fame, più la voglia di riscatto, mi fa scegliere gli studi nautici. Di notte studiavo, di giorno facevo sport, giocavo a calcio, terzino o ala sinistra.

Nel 1982 mi diplomo a faccio domanda per entrare all’Accademia navale di Livorno. Vengo destinato a La Spezia e mi imbarco sul cacciamine Loto. Dopo il congedo, inizia la mia carriera a bordo dei mercantili. Per dodici anni giro il mondo. Intanto mi sposo con Federica, nascono Natalie, Natascia, Margherita e io mi fermo. Faccio il concorso per pilota del porto, lo vinco e dal 1998 sono qui ad Ancona.

Sono triestino da sette generazioni e mi sento visceralmente attaccato alla mia città. Ma con gli anni ho scoperto un amore assoluto anche per quest’altra città, per queste persone e questo porto… Quando arrivando dall’autostrada scorgo le luci di Ancona e poi quelle del porto, provo le stesse emozioni e gli stessi sentimenti di quando percorro la costa per rientrare a Trieste. È una forma di nostalgia e di familiarità. È come casa. Ormai sono parte della vita del porto, di questo porto, fatto di belle strutture e di grande umanità.

 

ESTHER MORETTI, 16 ottobre 1976

Barcaiola

di Gian Luca Favetto

Io ho fatto il nautico, in quello splendido edificio che è affacciato sul porto. Ai miei tempi il cancello era chiuso, ma scavalcavo il muro lo stesso, passavo dove c’era la Trattoria da Irma… C’è ancora adesso, sul lungomare Vanvitelli… Venivo a vedere se il babbo, che al porto lavorava, poteva portarmi a casa oppure dovevo prendere l’autobus… Qualche volta lo aspettavo…

Babbo all’inizio faceva il sommozzatore alto fondale. Con quel lavoro ha girato il mondo. Il mestiere di sommozzatore era la sua passione e il suo divertimento. Quando tornava a casa, raccontava la bellezza del mare e ci ha insegnato ad avere rispetto, a non sottovalutare i pericoli, a non essere troppo spavaldi: sempre massima attenzione, perché il mare è il mare. Anche il nonno materno ha navigato. Per forza anch’io dovevo finire a mescolare la mia vita con il mare. Ha sempre esercitato un grande fascino su di me.

Sono nata in Scozia, nelle isole Orcadi, estremo nord della Gran Bretagna. È lì che il babbo, mentre lavorava alla costruzione di un terminale petrolifero nel Mare del Nord, ha conosciuto mia madre, che faceva l’università e d’estate lavorava in un pub. Colpo di fulmine e sono nata io, primogenita di tre fratelli. Un’infanzia felice, a contatto con la natura. Poi, quando avevo 8 anni, ci siamo trasferiti in Italia, ad Agugliano, 15 chilometri da Ancona. E il mio primo ricordo è la mamma che mi chiede se a scuola voglio fare il tempo pieno o no, se voglio andare anche il sabato. Ho scelto il tempo pieno. Eravamo in nove in classe.

C’è stato un periodo in cui volevo fare, come il babbo, il sommozzatore. E prima ancora volevo fare la hostess. E però volevo anche stare sul mare, sulle navi, volevo viaggiare. E quindi quando mi diplomo, nel 1995, parto. Finalmente navigo. Subito un anno di imbarchi come allievo, poi ho dato l’esame. All’inizio del 1997 sono diventata aspirante capitano di lungo corso e ho fatto domanda alla compagnia dei traghetti delle Orcadi. Dopo otto mesi nel Mare del Nord, babbo, che era entrato in una ditta di barcaioli ed è diventato socio, mi propone di lavorare con lui qui ad Ancona su una vecchia barca battezzata Simone. Era l’ottobre del 1997, non ho più smesso.

Facciamo trasporto di persone, merci, viveri, materiali, dalla banchina alle navi in rada. Portiamo tutto quello di cui necessita la nave. Anche i cambi equipaggio. E poi i rifiuti: ritiriamo i rifiuti solidi e liquidi dalle navi. E ci occupiamo dell’antinquinamento. Interveniamo quando accade una perdita o un versamento in mare, lo conteniamo e lo aspiriamo.

Abbiamo tre barche. La mia preferita, il mio gioiello, porta il nome di una specie di gabbiano dei mari del nord che vola indisturbato fra le intemperie: Fulmar, si chiama. È diventato anche il nome della nostra ditta. Poi c’è la Diomedea, anche questo è il nome di un uccello marino, il grande albatro. La terza barca, invece, porta il nome del babbo: Marco.

Sul mare ci sto. Sulle barche anche. Ma non viaggio. Ho scelto la famiglia, ho scelto di crescere le mie figlie. Per questo sono rimasta in porto. Che è il posto più bello dove guardare il tramonto.

 

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